Wabi-Sabi – la mia barca…una filosofia di vita

Wabi-Sabi – la mia barca…una filosofia di vita

Parlando in termini di positivo e negativo, di yin e di yang, WABI-SABI è yin.

È un modo per calarsi nella natura attraverso le piccole cose.

È una sensazione simile alla tristezza, alla malinconia. È uno dei modi tipici dei giapponesi di “sentire” la natura, di “sentire” la bellezza.

Comprende: solitudine, serenità, distacco, semplicità e povertà, scegliere le cose per la qualità della vita che da esse emerge. È anche manifestazione del concetto estetico giapponese molto complesso e strettamente associato al buddismo Zen e alla poesia Haiku.

WABI

Nel dizionario giapponese è la sensazione che si riceve osservando qualcosa di semplice, di sobrio.

SABI

Significa antico, che ha un passato e dà una sensazione di poesia generata da una qualsiasi cosa che sia invecchiata bene.

Nessuno di questi concetti può essere definito con precisione. Né le qualità che essi esprimono, possono essere osservate direttamente, perché rappresentano lo stato mentale sperimentato da chi si trova di fronte all’oggetto che lo suscita. Esistono altre parole utilizzate in simili contesti quali: Shi-Bui e Yugen; ma sebbene tutte queste parole abbiano un significato vagamente simile e indichino sensazioni simili, ognuna di esse si differenzia per sfumature e connotazione.

Il termine Wabi può significare malinconico, solo, schivo, solitario, desolato, calmo, tranquillo, silenzioso, impoverito e modesto. E’ una sensazione soggettiva evocata da un oggetto la cui classica raffigurazione è quella di una capanna di pescatori abbandonata, lungo una spiaggia solitaria battuta dal vento in una grigia giornata invernale.

La parola Sabi può significare antico, sereno, smorzato, maturato, classico, maturo, esperto, oltre che solo, solitario e malinconico.

WABI-SABI più che un pensiero è un sentimento

E’ la bellezza delle cose imperfette, transitorie, incomplete. La profondità di ciò che è semplice, il fascino del non convenzionale; Wabi significa quiete, Sabi invece significa silenzio, solitudine.

Il WABI-SABI trova la sua espressione pratica nella cerimonia per la preparazione del tè.

Questi i principi della cerimonia: armonia, rispetto, purezza e tranquillità, che celebrano l’armonia dell’uomo con la natura, il rispetto per gli ospiti, la sobrietà e pulizia delle stanze. Il tutto per raggiungere pace e tranquillità interiore, eliminando ciò che è superfluo.

Negli ultimi anni è nata anche un’estetica legata ai principi del WABI-SABI. Il giardinaggio, che predilige i giardini dall’aria selvaggia, la bellezza vista come fattore interiore prima che esteriore. Si ritrova in materiali grezzi, negli oggetti appena abbozzati in antitesi con i canoni occidentali, basati sul concetto della perfezione. La presenza di Sabi è spesso suggerita dalla patina o altri segni del tempo su un pezzo antico e custodito come un tesoro.

“Mentre mangio i Cachi, sento la campana del Tempio.” Questa è una poesia HAIKU giapponese.

La poesia HAIKU è la più piccola forma di poesia esistente al mondo, che rappresenta bene la sensazione di WABI-SABI.

Questo HAIKU è di un famoso poeta del 1700 che esprime con questa forma di pochissime parole, in tutto diciassette sillabe, una sensazione molto forte. Per i giapponesi dietro l’HAIKU ci sono mille significati che non possono essere colti da chi non ha esperienza della vita. In questo caso il Tempio è quello di Nara, antica città, già capitale del Giappone prima di Kyoto, e rappresenta tutti i Templi giapponesi nei quali la campana suona di sera, verso il tramonto. Il suo suono è molto malinconico, ma anche molto efficace: nel completo silenzio esalta la sensazione di WABI-SABI. La funzione del frutto del Caco è quella di evidenziare che la stagione è l’autunno. La poesia quindi esprime una scena di questo tipo: l’ambiente è un po’ buio, una persona anziana, verso sera, sta mangiando un Caco; è autunno, in lontananza, nell’aria umida, si sente vibrare il suono della campana che proviene dal Tempio. Tutto è vecchio, o meglio, antico.

Da questo esempio possiamo trarre un insegnamento, cioè, che sono molti i fattori che determinano questa sensazione. Prima di tutto è molto importante la stagione, poi il momento della giornata, l’ambiente, la forma, il colore, il proprio sentimento.

Quando tutto ciò si fonde in un certo modo, allora si può veramente “sentire” WABI-SABI.

L’ora del giorno è data dall’intensità della luce del sole che varia dall’alba al tramonto. Al mattino il nostro spirito è pieno di vitalità, diventa chiaro e anche se prima dell’alba c’è un momento in cui la luce è ancora soffusa, non possiamo “percepire” WABI-SABI perchè sappiamo che dopo poco arriverà il sole. Nel pomeriggio questo comincia a calare e verso sera diventa buio. WABI-SABI si sente un attimo prima che il sole cali completamente, prima che diventi buio, quando si vede ancora qualcosa: delle ombre. In quel momento percepiamo una sensazione di tristezza.

Per quanto riguarda l’ambiente, non deve essere nuovo, lucido, appena costruito e pieno di vita, ma vecchio, opaco, antico. Una capanna in montagna, una cascina vecchia su un altopiano, l’interno di una casa antica, sono tutte condizioni che favoriscono WABI-SABI. A volte basta un angolo della casa o un muro ove cresce il muschio. La forma che può favorire questa sensazione non è massiccia, mastodontica, grottesca, ma bella, non ben definita, non aggressiva, la forma iniziale deve essersi persa nel tempo come ad esempio può essere per un castello antico.

Tutto questo perché qualsiasi cosa, quando è nuova, ha una forma precisa ma col tempo tutto perde lucentezza, i colori svaniscono come la sensazione aggressiva originale e ogni cosa acquista una patina di antico.

Anche una persona che ha provato infinite esperienze, che ha vissuto intensamente, vive un momento di WABI-SABI.

Ma è un momento transitorio: quando va oltre, WABI-SABI finisce, ed inizia decadenza. È una sensazione quindi che non permane e non è ripetibile, ripetibile è il ricordo.

Gli occidentali possono arrivare a capire questa sensazione attraverso la ragione ma, probabilmente, non riescono a provarla. Scaturisce da una situazione che si verifica in un dato Paese dove la cultura è diversa e diverso è il modo di sentire.

Non è comunque una sensazione esclusiva dei giapponesi, la differenza sta però nel fatto che in Giappone viene esaltata: ad esempio essi amano la penombra invece della luce che nelle loro case è sempre soffusa.

Non è però una situazione cercata, è sentita; è difficile che un giapponese riesca a rispondere alla domanda su cosa è WABI-SABI, sentono ma non sono capaci di spiegare.

La sensazione è presente e viene abbondantemente sfruttata in tutta l’arte giapponese. Se volete avvicinarvi un po’ a questa “sensazione”, create secondo le vostre possibilità, create una vostra cosa personale, diversa da quella giapponese… ad esempio, si può raggiungere tale sensazione quando, dopo il tramonto, dalla barca si contempla il paesaggio circostante.

NAVIGARE IN SOLITARIO

NAVIGARE IN SOLITARIO

Sono cresciuto amando Sailing Alone Around the World di Joshua Slocum. Sulla cinquantina, proiettatosi sulla roulette russa dal destino, aprendosi ai numerosi rischi che portava in se l’ardua impresa, partì con una barca a vela di 36 piedi in gran parte auto-costruita e riuscì in qualche modo a circumnavigare la terra. 

Sarebbe dovuto stare senza equipaggio, ma non era del tutto solo, aveva la magica compagnia di una barca che poteva timonare per centinaia di miglia nell’Oceano e della sua cabina piena di libri, dove si adagiava contento mangiando baccalà e leggendo “Don Chisciotte”. 

Per un adolescente senza sbocco sul mare che aveva ambizioni nautiche e letterarie, Slocum era quasi troppo bello per essere vero.

Da lì in avanti, feci altre letture che furono la mia ispirazione e passai alcuni anni in riva al mare, o al massimo a poche centinaia di metri dalla battigia, praticando windsurf per alcuni mesi all’anno. Utilizzavo un camper che mi permetteva di vivere la spiaggia per tutto il giorno e anche la notte; visto che feci fare una modifica sulla parete lato mare, istallando una finestra, che tenevo quasi sempre aperta per ascoltare il “rumore” del mare che stava lì a pochi passi da me.

Solo dopo queste esperienze di mare, di campeggio libero e sport d’acqua, ho comperato la mia prima barca a vela, uno sloop di 12 metri che mi ha portato dalla riva al largo. Un First 40.7 che il precedente proprietario, aveva acquistato nuovo soltanto un anno e mezzo prima.

Dopo 3 anni di veleggiate costiere e traversate nel Mediterraneo, ho sentito l’esigenza di passare ad una barca più grande e più confortevole. Un Wauquiez Centurion di 45 piedi con la quale sono entrato in perfetta simbiosi e sintonia dal primo momento che l’ho scoperta al Salone Nautico di Parigi 16 anni fa.

Barca a vela Wabi-Sabi fotografata dall’albero – ph. Francesco Ciccotti

E’ stata una folgorazione, un amore a prima vista. Per settimane ho cercato il nome più appropriato da dargli. Un nome che avrebbe potuto rappresentare al meglio la mia filosofia di vita, di vivere in armonia con la natura, di dare un senso alla vita, di vivere con semplicità. Il nome più appropriato non poteva che essere WABI-SABI.

Logo Wabi-Sabi con breve sintesi del concetto giapponese del wabi sabi – ideato da Francesco Ciccotti

Ho passato anni a fare traversate in tutto il Tirreno in compagnia di uno o più membri di equipaggio. Solo questa ultima estate, per la prima volta, ho dato vita al sogno che rincorrevo da quelle letture da ragazzo.

Ho navigato in solitario per c/a 150 miglia, dal Nord della Sardegna fino alla Marina di Nettuno. 

Sono state 24 ore vissute magnificamente in una altalenanza tra pace e adrenalina, una condizione così nuova, insolita, eccitante… 

Wabi-Sabi in navigazione in solitaria al tramonto – ph. Francesco Ciccotti

E’ passato qualche mese da quella straordinaria esperienza. Avrei voluto scrivere immediatamente tutte le sensazioni che ho provato in quelle ore lì da solo in mezzo al mare; ma avevo una tale confusione e a dire il vero anche una certa stanchezza, che nell’immediato non sono riuscito a metterle per iscritto. 

A dirla tutta, avevo anche pensato che se l’avessi prima elaborata mentalmente, con calma, poi sarei forse riuscito a chiarirmi meglio le sensazioni di quei momenti vissuti. Ora non sono sicuro che tali  emozioni sia capace di spiegarle razionalmente, ma ho la certezza che affrontare una traversata da soli, così come fare un qualsiasi viaggio estremo in solitaria, è un modo per entrare profondamente in contatto con se stessi. Una circostanza che ti avvicina all’onnipotenza, ad un senso di piena libertà, che ti porta fuori dal tempo in una dimensione onirica…

Selfie in navigazione, con pilota automatico, durante la veleggiata in solitario – ph. Francesco Ciccotti

La cosa di cui ora ho consapevolezza, pur essendo io caratterialmente propenso alla condivisione delle esperienze, soprattutto se estreme e con un certo grado di rischio, è che ho una smisurata voglia di rivivere quella Avventura. Quel tipo di condizione umana impegnativa e solitaria difronte a spazi il cui orizzonte è aperto, lontano e apparentemente infinito. 

Selfie con autoscatto in navigazione in solitaria, durante un momento di calma di vento – ph. Francesco Ciccotti

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